Denne utgaven av vår Litterære vår dedikerer vi til den italienske poeten Luigi Di Ruscio (Fermo, 1930 – Oslo, 2011) i forbindelse med den ferske utgivelsen “Poesie scelte 1953-2010”. Massimo Gezzi, redaktør for utgivelsen, vil presentere boken og Angelo Ferracuti, som arbeider med en biografi om Di Ruscio, vil fortelle om hans forfatterskap.
Til sist vil vi høre Luigi Di Ruscio i et opptak lese opp noen av sine dikt og Liv Aavik som leser opp den norske oversettelsen.
Kvelden foregår på italiensk.
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LUIGI DI RUSCIO Poesie scelte 1953-2010
Ovunque l’ultimo / per questa razza orribile di primi / ultimo
nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova
terra / per la sua voce italiana / ultimo ad odiare / e l’odio di
quest’uomo vi marca tutti / schiodato e crocifisso in ogni ora
/ dannato per un mondo di dannati.
La sua scrittura si produce al crepuscolo in un appartamento della periferia di Oslo, nella stanza piena di carte in cui domina una vecchia Olivetti. Nessuno in casa parla l’italiano, né sua moglie Mary né i quattro figli, così come nessuno immagina in fabbrica la sua attività di scrittore, ma è proprio questa doppia condizione di parzialità a garantire alla sua poesia il segno della totalità compiuta. Essere ‘sotto’ e nel frattempo essere ‘fuori’ significa per lui non poter essere che lì, eternamente, sulla pagina. Egli non deve nemmeno liberarsi di zavorra eccessiva e, pure se in realtà ha letto tutti i libri, proclama la propria ignoranza menzionando pochissimi riferimenti d’avvio come i sillabati di Ungaretti e Lavorare stanca di Pavese. Benché parli volentieri neanche in italiano ma in dialetto fermano, in realtà conosce le lingue, traduce le liriche di Ibsen dal norvegese, legge di continuo i filosofi, ed è dalle lezioni di estetica di Hegel che deduce una volta per tutte l’idea secondo cui la poesia corrisponde a una coscienza disgregata che nella sua inversione si esprime in un linguaggio scintillante capace di verità. Per questo in ogni poesia di Di Ruscio c’è potenzialmente tutta la sua poesia e la sua intera produzione ha la circolarità di un autentico poema. (Massimo Raffaeli)
Nato a Fermo nel 1930, al tempo della dominazionefascista e in un ghetto di sottoproletari, alunno indocile che non andrà oltre la quinta elementare, monello sbandato, comunista con evidenti venature anarchiche, poi ragazzo di mille mestieri, infine nel ’57 migrante a Oslo dove per quarant’anni lavorerà alla catena di montaggio di una fabbrica metallurgica: tale è il suo cursus honorum, dove il tempo della poesia è un residuo sottratto con tenacia al tempo dell’asservimento ed è il solo privilegio concessogli da quello che chiama, alternando
sarcasmo e ironia, il paradiso socialdemocratico. Per lui, chiedersi come un uomo diventi un uomo equivale a chiedersi come e perché un uomo diventi un poeta. E infatti Luigi Di Ruscio non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court.
Per decenni rimasta in uno stato di marginalità geografica e di semiclandestinità editoriale (a parte il consenso di alcuni mallevadori d’eccezione, quali Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Giancarlo Majorino, Antonio Porta) la poesia di Luigi Di Ruscio è emersa all’improvviso come un iceberg al passaggio del millennio e dunque nel contesto di una grave crisi sistemica, innanzitutto economicopolitica, che ne ha svelata finalmente l’essenzialità. (Massimo Raffaeli)